VAN GOGH: 167 anni di oro puro e blu oltremare
Vincent van Gogh, l’incompreso di Zundert che con le sue pennellate artistiche e il suo tratto essenziale ha contribuito ad una nuova visione artistica delle emozioni, è uno dei pittori che ancora oggi non conosce tempo e distanze.
Le affinità elettive dei suoi tratti e la sua sensibilità artistica sconvolgente e coinvolgente vanno oltre l’apparenza del reale. E’ assai arduo distogliere lo sguardo dai suoi paesaggi stellati infiniti o dai suoi campi di grano dorati. Dai suoi cipressi cullati dal vento, dalle sue nature morte così intime o dai suoi fiori intensamente vividi. Dalle sue vie parlanti, dalle sue chiese ascetiche e dai suoi volti dignitosi e sofferenti.
I colori vibranti e audaci colpiscono sempre per quel leggero pulviscolo ombroso che nonostante la lucentezza cromatica emanano. Guardando le tele di van Gogh traspare sempre la drammaticità del suo alienante pennello.
Quell’apparato coloristico e materico poco recettivo al gusto della sua epoca, annichilisce i contemporanei di oggi, soprattutto i suoi stilemi così acuti e acuminati intensamente sospinti da lucenti schizzi di puro oro. Il giallo cromo sussultante delle sue pennellate, ora lucenti e marcate, ora più flebili e ambrate, si infrange sulle tele come uno zampillo fatto di sole. Il suo blu freddo e ombroso, fosco e metallico abbraccia lo spazio come fosse un materno manto mariano.
Il valore emozionale di van Gogh si ascrive al suo tocco convulso, viscerale e appassionato, talvolta dirompente, disperato.
Una fascinazione estetica dove i suoi arzigogoli arrotondati, flessi o pennellati in parallelo hanno la capacità di catturare e imprigionare sempre luce, anche nella più profonda oscurità di natura e di animo.
Il critico coevo di van Gogh, Albert Aurier affermava “Vincent è al contempo troppo semplice e raffinato per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà completamente compreso soltanto dai suoi fratelli, gli artisti”.
Oggi i suoi estimatori, invece, si trovano ovunque. E la moda non fa eccezioni.
Yves Saint Laurent è stato il pigmalione di van Gogh nell’haute couture. Tra gli anni ‘80-’90 riuscì a trasformare quelle tele di colori sonori in un coro di raffinati orli sartoriali decretandone un successo cosmopolita.
Negli ultimi anni anche l’americano brand Rodarte ha etichettato un bel successo con i suoi abiti fru fru dedicati a van Gogh per non parlare del modernissimo e teen brand di Vans che ha impostato una florida collaborazione con il van Gogh Museum per una linea di accessori apprezzatissimi dai millennials.
Infine, chi non ha aguzzato la vista nelle vetrine di Luisi Vuitton qualche anno fa rimanendo rapita da bellissime bag azzurro cielo con impressi i cipressi danzanti di Vincent? Impossibile non soffermarsi. La capsule in collaborazione con l’eccentrico e blasonato Jeff Koons è stata un tam tam di like su tutti i social.
Potremmo parlare all’infinito della mercificazione dell’arte e del suo deperimento – in qualche caso – in chiave fashion. Tuttavia, una cosa va sottolineata, la moda guarda all’arte, la cerca, la chiama. Parla di arte. Il costume di per sé è una forma d’arte. Effimero, fugace, perituro, anche fragile ma comunque espressione d’arte.
Laddove spesso ci si dimentica di guardare al passato come storia, come radice culturale, l’haute couture ne rinvigorisce spesso il pensiero, l’idea, il pathos. Valorizzare un patrimonio artistico non significa solo mostrarlo o restaurarlo, ma renderlo anche fruibile e capibile a tutti, divulgarlo e perché no, anche renderlo pop. Con i suoi rischi, le sue contraddizioni e le sue critiche, ma anche i suoi successi.
E’ vero, vedere il ritratto di van Gogh su delle sneakers, le sua stanza su una t-shirt o i suoi iris in una shopping bag potrebbe sembrare blasfemia. Ma è davvero cosi?
Il fil rouge è sempre uno: il buon gusto.