Vendere il lusso ai bimbi è un affare da grandi
Se anche il colosso del lusso francese Lvmh continua a rafforzare la sua presenza nel comparto childrenswear, vuol dire che il business è davvero molto intrigante e ricco di prospettive… rosee come un bimbo, si potrebbe affermare. L’ultimo step di questo processo di consolidamento di Lvmh nell’abbigliamento/accessori per l’infanzia è il contratto di licenza siglato da Emilio Pucci con l’azienda italiana Simonetta.
A questo punto sono sei i brand di Lvmh che, in joint venture o in licenza con altre maison se non in house, sviluppano collezioni per bambini: Givenchy e Marc Jacobs (entrambi in licenza con Cwf), Kenzo (con Kidiliz), Fendi (anch’essa con Simonetta in joint-venture) e Dior (che produce internamente le proprie mini-taglie).
Vista questa frammentazione produttiva e strategica delle griffe, viene spontaneo domandarsi se anche Arnault si deciderà a costituire un polo kids seguendo l’esempio di Renzo Rosso col suo Brave Kids, che non solo gestisce all’interno le varie linee childrenswear del gruppo (Diesel, Dsquared2, Marni), ma attraverso una piattaforma ad hoc cura anche le licenze di John Galliano e Trussardi. Per Lvmh sarebbe un modo ottimale per coordinare il suo formidabile portafoglio di marchi in sinergia con le politiche di gruppo.
A questo punto, può essere opportuno accennare al delicato rapporto tra i più piccoli e i brand di moda/lusso. In effetti negli ultimi anni sono state commissionate agli esperti da parte di alcune aziende innumerevoli ricerche sull’infanzia e, in particolare, sulle capacità dei bambini di interpretare i messaggi veicolati dai brand, capacità che, a quanto pare, evolvono prestissimo. Ciò deriva dal riconoscimento del ruolo sempre più rilevante del target giovane e dalla conseguente necessità di adottare nuove strategie di marketing sofisticate ed efficaci.
In pratica i bambini, al pari degli adulti, sono ormai avvezzi a vivere il mercato – con i suoi prodotti e servizi, le sue promesse ed illusioni, i suoi luoghi ordinari e magici – come risorse culturali, veri e propri mezzi ad elevato valore simbolico.
Essendo nati in una società consumistica, i piccoli sono abituati a riconoscere i valori dei marchi, a considerarli come parte della cultura popolare in cui costruiscono la propria identità. Nondimeno, essi continuano a mantenere quella capacità innata ed istintiva di manipolare e de-costruire i messaggi, di staccarsi e proiettarsi lontano dalle proposte commerciali. Anche le reazioni di ribellione e trasgressione nei confronti degli adulti possono leggersi come ricerca da parte loro di uno spazio indipendente nei confronti di un mondo mercificato che ai piccoli non concede sufficiente potere simbolico, di definizione e di auto-affermazione. Nel frattempo, essi maturano quella che può essere considerata una forma embrionale di “consumer agency”, ossia capacità di autonomia consapevole delle proprie scelte di consumo verso il potere delle imprese. E se la cultura consumistica rappresenta la loro arena, essi useranno tale risorsa per edificare la propria personalità, mattone su mattone.
Permettere ai bambini di appropriarsi liberamente e spontaneamente dei significati simbolici creati dal mercato e fornire spazi di “manipolazione” (absit iniuria verbis) delle espressioni materiali della nostra cultura può costituire, allora, una via produttiva anche per le aziende che dovranno sostenere uno scambio dialettico con questi “difficili” consumatori.
“I fanciulli trovano tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto”, affermava Giacomo Leopardi. E lo scrittore Marcello Marchesi sentenziava: “È sbagliato raccontare le favole ai bambini per ingannarli, bisogna raccontarle ai grandi per consolarli”.