Vestirsi per la rivoluzione
In una realtà distopica e postapocalittica, sulle rovine del Nord America sorge la nazione di Panem, soggiogata al potere della ricca Capitol City. Come monito per una ribellione scoppiata molto tempo prima, la nazione divisa in 13 distretti – di cui solo 12 rimasti funzionanti – è costretta ogni anno ad inviare in città 24 tributi (un ragazzo e una ragazza per ogni distretto) dai 12 ai 18 anni per partecipare agli Hunger Games, il reality show più amato e seguito dagli abitanti di Capitol City. Reality che non ha il solo scopo di soddisfare il voyeurismo malato degli spettatori, ma anche e soprattutto quello di esercitare un controllo politico sui distretti, un modo per mantenere l’ordine e stringere sempre più la morsa attorno al collo dei più deboli e sofferenti.
I tributi verranno addestrati, restaurati, intervistati, manovrati come burattini e trasformati in celebrities tutte glamour e sorrisini, per poi essere condotti in un’arena dove dovranno combattere fino alla morte gli uni contro gli altri, finché non ne rimarrà soltanto uno. Sebbene possa sembrare assurdo, non sono solo le armi e la preparazione atletica a contare. Ogni tributo è infatti seguito da uno staff di estetisti e parrucchieri, ma soprattutto da uno stilista che ne cura il look in maniera ossessiva. Sì, perché nel circo di assurdità che si rivelano essere gli Hunger Games, il giusto look può salvarti la vita. Una fase cruciale della sfida infatti avviene ben prima che i concorrenti accedano all’arena: si tratta di conquistare sponsor apparendo al meglio del proprio aspetto, perché gli sponsor sono i ricchi abitanti di Capitol City e, se si riesce ad attirare la loro attenzione, si verrà ricompensati con doni inviati da piccoli paracadute direttamente nell’arena, quando un fiammifero o un po’ d’acqua possono fare la differenza tra la vita e la morte.
A Katniss Everdeen (interpretata magistralmente dalla bellissima e talentuosa Jennifer Lawrence) e Peeta Mellark, i tributi del distretto 12 – il distretto dei minatori – ci pensa Cinna, promettente stilista di Capitol City, ma ben lontano dagli eccessi che il gusto cittadino impone. Alla sfilata in cui i Tributi vengono presentati per la prima volta agli sponsor, il distretto 12 è sempre stato penalizzato: l’obiettivo infatti è quello di richiamare alla mente il territorio di appartenenza, e così il giovani del 12 si sono sempre ritrovati sporchi di carbone con addosso informi tute da minatore, incapaci di attirare l’attenzione. Ma Cinna ha pensato a qualcosa di diverso per Peeta e Katniss: li veste con aderenti tute di pelle nera, austere e seducenti allo stesso tempo, che verranno accese durante la sfilata, facendo fiammeggiare le spalle dei due Tributi e offrendo uno spettacolo mai visto prima. Katniss si guadagna così il soprannome di “Ragazza in Fiamme” e l’attenzione della platea. E Cinna coglie il suggerimento, preparando un costume mozzafiato per l’intervista singola della coraggiosa ma riservata Katniss: un abito lungo rosso fuoco, elegantissimo, con una cascata di diamanti sulla spalla che, riflettendo i bagliori delle luci sul palco, sembrano tante piccole scintille. Ma il coupe de theatre arriva quando la ragazza dichiara di indossare ancora le sue fiamme e, alzatasi in piedi, fa una piroetta: ecco che la gonna si apre, rivelando lingue di stoffa gialle e nere, brillando e ondeggiando come un falò in una notte estiva. Il pubblico è estasiato, gli spettatori in sala anche, e la nostra eroina si conquista così l’appoggio degli sponsor.
La descrizione dell’abito resa così bene da Suzanne Collins, l’autrice del romanzo da cui è tratta la pellicola, prende vita grazie all’arte di Christian Cordella, costumista di origini salentine emigrato all’estero per cercare fortuna. Non sono solo questi due costumi – realizzati in collaborazione con la costumista Judianna Makovsky – a raccontarci il talento di Cordella. I costumi del film sono in uno strano equilibrio tra atmosfere futuristiche e secondo dopoguerra. Gli abitanti di Capitol City indossano colori sgargianti, accessori bizzarri, abiti kitsch. Tingono capelli e sopracciglia di fuxia accesi, blu elettrici o accecanti gialli, si truccano tanto da somigliare a maschere grottesche, e ben rappresentano l’ostentazione dei ricchi abitanti.
Il contrasto con la popolazione di Panem è ancora più evidente: i loro abiti sono scuri, richiamano i colori dei boschi che circondano le loro case, niente trucchi o gioielli, nessun fronzolo. E alla cerimonia della Mietitura (quando vengono estratti i nomi dei Tributi che parteciperanno ai giochi), dove il governo impone che ci si presenti al meglio, col vestito più bello, il distretto 12 è una macchia indistinta di bianco sporco, azzurro e grigio. Colori freddi, spenti, che richiamano alla mente le tristi immagini dei deportati nei campi di concentramento. Ogni abito diventa espressione di altro: stati d’animo, provocazioni, critiche… il tutto senza forzature, dando un forte contributo alla narrazione.
Sebbene il contenuto della pellicola possa sembrare così lontano dalla nostra realtà e gli abitanti di Capitol City così degni di biasimo, siamo così diversi noi che godiamo dell’aggressività scaturita dalle tifoserie dei concorrenti dei reality? Ci distinguiamo quando ci sintonizziamo per vedere persone abituate alla civiltà immergersi in contesti selvaggi ed esercitarsi alla sopravvivenza? O quando tutto quello che aspettiamo è lo sbocciare di una storia d’amore in diretta tv? E il vezzo di pitturarsi le ciglia di rosa confetto solo per attirare l’attenzione, non è forse simile agli abusi di silicone della nostra società?
Katniss diventa così simbolo di una ribellione non solo cinematografica; accende un’eco di interrogativi nei nostri cuori e ci consegna un messaggio: anche una sola piccola scintilla può causare un incendio.