What women want (?). Mostra a Milano
Sguardi velati su copertine di riviste di moda o su poster versione street-art. Veli che nascondono ma non riescono a spegnere la voglia di femminilità e bellezza, discretamente o sfacciatamente decorati, ricolorati e griffati. Va in scena per contrasto, l’allusione al sogno occidentale, l’abito che divinizza la donna, nei grandi quadri digitali di Flavio Lucchini che compongono la personale “What women want (?)” curata da Alan Jones e presentata a Milano presso MyOwnGallery dal 10 al 16 gennaio con apertura speciale ad orario continuato durante White Uomo dal 14 al 16 gennaio, dopo il grande successo riscosso durante la 54° Biennale d’Arte di Venezia (60.000 visitatori in 5 mesi). Immagini di donna, sotto il burqa afgano o il niqab mediorientale illuminano, rivelano, riflettono sul misticismo, il fanatismo e l’oscurantismo del presente mentre un desiderio domina su tutti gli altri: la voglia insopprimibile delle donne di esprimere se stesse. Senza poter dimenticare la valenza comunicativa dell’abito il mouse si sostituisce al pennello, l’unicità dell’arte si fa complice della serialità della tecnologia in un incrocio di linguaggi che vede interfacciarsi arte e moda, grafica e pubblicità, fotografia ed internet, Photoshop e “last but not least” una tagliente, provocatoria e quasi dolorosa, capacità di analisi sociale.
La nuova visione dell’abito contemporaneo è un terreno di indagine e di sperimentazione abituale per Flavio Lucchini, perché il vestito può fare la differenza. Le sue donne velate esprimono la rappresentazione più controversa della femminilità, sono il simbolo di un passato che non svanisce ed anzi sembra tornare prepotentemente. Il particolare angolo visuale di Lucchini sbaraglia ogni copertura, cercando l’individualismo nell’apparenza più indifferenziata: il mistero di una femminilità celata, a volte negata. Anche il dettaglio, “l’accessorio”, può suggerire nuove visioni; così la cornice smentisce il contenuto in una duplice chiave di lettura fra senso del pericolo e paradosso. Figure nere sembrano posare per un set di Vogue, i burqa più inquietanti diventano copertine impossibili (o forse no) di testate di opinione, ritratti d’autore o l’ultima proposta di una grande griffe della moda.
Lucchini come Warhol è un maestro sovversivo della Pop Art; domina la linea sottile che attraverso la moda collega la realtà al bisogno indotto, la logica commerciale, l’estetica e l’illusione. Ha portato al successo le maggiori riviste di moda italiane lanciando per conto della Condé Nast Vogue Italia e creando tutte le nuove testate del gruppo (L’Uomo Vogue, Casa Vogue, Vogue Bambini, Lei-Glamour ecc), dal 1965 al 1979. Fondatore della prima casa editrice italiana specializzata in pubblicazioni di alto target sulla moda, influenza con le sue riviste contenuti e grafica di tutte le testate al femminile. Per circa trent’anni è, praticamente, il più influente personaggio dell’editoria di moda italiana: scopre nuovi talenti della fotografia, della grafica e del giornalismo, tenendo a battesimo sulle sue riviste i più importanti stilisti.
Nel 1993 è richiamato a capo di Condé Nast Italia, ruolo che accetta solo come consulenza temporanea, per dedicarsi totalmente alla sua passione di sempre. Lascia tutti i prestigiosi incarichi e approfondisce la sua ricerca: esplora i rapporti tra arte e mondo del fashion. Iniziano anni di sperimentazione tecniche e nell’uso dei materiali, nascono opere, soprattutto sculture e altorilievi di grande pathos, non prive di una sottile ironia. Lucchini vive tra Milano, città che ospita il suo atelier aperto fin dal 1990 e un imponente archivio-galleria, e Parigi, nella home-gallery di Saint Germain. L’artista che sfugge a facili categorizzazioni, descrive così il suo complesso universo creativo: «Mi muovo tra classicismo e new pop, in una sorta di filo diretto tra Canova e Jeff Koons. Mi interessa il mistero, la magia della moda, divinizzarla e, nello stesso tempo, dissacrarla».
Dagli altorilievi di Fashion-lunapark dei primi anni ’90, attraverso Dress-Toys o vestiti-mito, resi come idoli del nostro tempo mediante sculture in bronzo dorato o rivestite di foglia d’oro nella serie Gold, la lunga serie dei Dress-Memory, i lavori intitolati Ghost che portano in scena fantasmi d’abito senza corpo o Dolls , in cui la rappresentazione dei dress code delle teenagers si avvicina sempre più all’estetica pop e dei toys, si arriva a Faces e ai Burqa.
Con Faces, Lucchini ha proposto una riflessione sulle diverse identità e sulla chirurgia estetica che rende le fattezze riproducibili e identiche, attraverso volti di donna in altorilievo e lineamenti che mutano con la luce; con i suoi Burqa Lucchini si pone ancora oltre la moda e nel nucleo incandescente dell’analisi sociale, rileggendo l’abito che viene da lontano in senso fisico e temporale ma soprattutto, le sue ricadute sul nostro presente, utilizzando in modo provocatorio e magistrale, tutti i linguaggi e i codici dell’universo del fashion, della pubblicità, della comunicazione contemporanea. Come ha sottolineato Alan Jones, portando avanti il suo lavoro di provocazione, Flavio Lucchini ci costringe ad affrontare la contraddizione fra stili di vita che fino a poco tempo fa apparivano inconciliabili, aggiungendo: “Vale la pena ricordare che in Giappone non è il volto ad essere coperto con un velo, ma lo specchio”.