Qella faccia mi è proprio nuova
“Non siamo stati noi a scegliere i nostri lineamenti!”. Con questa perentoria affermazione si apre il nuovo libro della semiologa Patrizia Magli, docente alla facoltà di Arti e Design dell’Università IUAV di Venezia: “Pitturare il volto” (edito da Marsilio) esplora il mondo del trucco con cui donne e uomini proiettano agli altri la loro identità.
Dalle pitture tribali al “cerone” cinematografico, dal “velo” di cipria al velo come indumento religioso, fino alle ultime tendenze del maquillage contemporaneo, l’autrice analizza acutamente il complesso intreccio di pratiche, mode, fattori culturali, che sostanziano il rito del trucco, rivelando il rapporto tutt’altro che semplice tra il viso nudo e l’immagine che ciascuno vuol offrire di se stesso. Con le scarpe ed i vestiti, con i gioielli e l’acconciatura, il trucco costituisce un’unità visiva che ha un suo senso coerente da indagare con interesse accademico.
Come l’abito segue le vicende della moda, così il trucco, sensibile ai modelli proposti dalle tendenze del momento, esprime la sua vocazione all’integrazione sociale. Ci si trucca per mimetismo, per imitazione, per distinzione: il viso “pitturato”, imbellettato, “mascherato” ci racconta quanto è difficile essere noi stessi. In particolare, il trucco è sinonimo di piacere della variazione e desiderio di differenziazione individuale. Da ciò scaturisce il tema della bellezza, “ma di una bellezza controversa, poiché il maquillage si pone al servizio dell’espressività, contro la standardizzazione dei modelli”, come si legge sulla quarta di copertina del volume.
Il fatto è che l’individuo odierno rivendica il suo diritto a “farsi a proprio piacimento”, a plasmare il corpo come se fosse di cera, quasi sfidando prometeicamente la natura con un atto di ubris di drammaturgica memoria. Poco importa ché tratti somatici abbiamo ereditato dai nostri genitori, ancor meno la storia familiare di cui siamo un anello, quel che conta è la nostra volontà, anzi il nostro desiderio contingente per non dire capriccio.
Donne e uomini hanno da sempre dipinto il loro volto per comunicare, per presenziare a riti, per sedurre, per spaventare. Ciò che oggi interroga le nostre coscienze è il significato che è andata acquisendo questa pratica: cosa ci dice di noi e del tempo in cui viviamo. Il gesto è lo stesso nel tempo, ma sono cambiati radicalmente i suoi segni. In sostanza, dall’indagine semiotica emerge che anche il make up, al pari di molte altre azioni della vita attuale, è diventato un comportamento autoreferenziale, un’espressione di vanità e di delirio di onnipotenza. Gli altri diventano privi di interesse: importiamo solo noi e lo specchio che riflette la nostra immagine, con cui giochiamo all’autoseduzione.
La sociologa Gabriella Turnaturi, d’altro canto, ha scritto commentando l’analisi della Magli: “La soddisfazione di essere riusciti a ingrandire le proprie labbra grazie a un abile gioco di matite e rossetti, la gioia di aver trasformato occhi tondeggianti in occhi a mandorla come quelli di un bellezza thailandese, probabilmente procura più piacere di qualsiasi conquista. La vera conquista è essere riusciti nella trasformazione di sé, nell’essersi ricreati. E per chi non possiede tecnica né abilità manuale, la ricreazione viene affidata alle abili mani dei nuovi demiurghi: i truccatori, i veri eroi del nostro tempo. A differenza dei tatuaggi o degli interventi chirurgici, il trucco è solo temporaneo, è effimero. Bastano poche lacrime o un latte detergente per cancellarlo. È una ricreazione che può essere ripetuta all’infinito procurando continuamente nuovi affanni, ma anche nuovi piaceri. Chi ama truccarsi diviene dipendente dai quei gesti, da quel rito, da quel piacere solitario. Ecco che allora il trucco proprio perché effimero fonda nella sua possibilità di ripetersi una nuova forma di dipendenza. Ebbene sì. Si diventa trucco-dipendenti”.
Impressiona questo concetto di trucco-dipendenza che il libro ben descrive, ovvero il fatto che il pitturarsi non sia più finalizzato, come un tempo, a stabilire in qualche modo una relazione “estetica” con l’altro, ma si è tramutato in una sorta di autoritratto, rivelando l’inquieto rapporto fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
“Il maquillage lungi dall’essere menzogna, diverrebbe una verità apparentemente paradossale perché ci si trucca proprio per essere più simili a ciò che ci sentiamo o vorremmo essere” afferma la Magli. Quando esclamiamo smarrite che “non abbiamo niente da metterci” davanti ai guardaroba traboccanti di abiti e accessori, dichiariamo in realtà la nostra incapacità di manifestare ciò che vorremmo essere in quell’occasione. La nostra aspirazione più profonda è sempre quella di cancellare il gap tra essere e apparire, tanto nell’abbigliamento quanto nel trucco.
Il maquillage, quindi, è simultaneamente esibizione e infingimento. L’autoritratto, in effetti, deve poter dar voce a tutte le nostre multiple identità, alla nostra insaziabile voglia di trasformarci per placare l’inquietudine che suscita il viso al naturale, così umano e per questo così nudo, quasi impudico nella sua percepita vacuità di contenuti.