Itala Scandariato: una costumista con grinta
Aveva poco più di vent’anni Itala Scandariato quando Christian Dior le consegnò il premio “La tavolozza d’argento”, come riconoscimento per alcuni suoi disegni.
Oggi, a distanza di circa sessant’ anni, eccola arrivare con un piccolo bastone verde salvia in mano, che non usa perché cammina ben spedita. Indossa un poncho dello stesso colore sopra un golfino color burro e una camicia di popeline bianco. Ha occhi grandi e sinceri e una voce di quelle che vorresti ascoltare tutte le sere prima di addormentarti. Di quelle profonde flebili e sottili dei film autobiografici. Si accomoda con il suo bell’album fotografico tra le mani, e con fare delizioso ordina: “the verde per piacere…!”.
Come è nata l’idea di diventare costumista ?
“Sono nata Torino, e ho vissuto alcuni anni in Etiopia con la mia famiglia, nella mia vita ho fatto 42 traslochi. Quando ci trasferimmo in Sicilia frequentai il liceo artistico a Palermo. In quel periodo a casa dei Florio, amici di famiglia, giravano “The Master of Ballantrae”. Lavorava a quel film la costumista Annamaria Fea, scoprii così l’esistenza di questo mestiere.
Quando mi trasferii a Roma e studiavo all’Accademia delle Belle Arti, venni a sapere che a Cinecittà avrebbero girato il colossal Ben- Hur, mi misi in testa che avrei dovuto far parte dello staff e così fu. Per una serie di fortunate coincidenze finii tra i tre aiuto costumisti prescelti.
Per il colloquio ci avevano chiesto di produrre una cartellina contenente i lavori pregressi. Decisi di presentare unicamente disegni di dettagli, ricami, gioielli e accessori vari. Fui intelligente, ad un aiuto costumista non avrebbero domandato di disegnare abiti, inoltre sarebbe stato superfluo portare lavori legati ad altre epoche. Ero dietro la porta in attesa del verdetto e sentivo dire: “that’s perfect” e ancora: “this is what we need”. Per quattro mesi lavorai otto ore al giorno al tavolo da disegno, poi mi diedero il ruolo di assistant on set, restai a Ben-Hur un anno intero.
Charlton Heston era un gran signore; spesso veniva alle riprese con sua moglie e suo figlio, un bambino molto allegro e vivace che lui dolcemente riusciva a contenere”.
Cosa suggerisce ad un giovane che voglia intraprendere la sua carriera?
“Di trovare buoni maestri”.
Ha vestito molte attrici e attori di fama internazionale, vuole ricordare qualcuno?
“Sophia Loren è la più grande professionista che io abbia incontrato durante tutta la mia carriera: arrivava sul set truccata e pettinata da casa. Se l’ordine del giorno diceva di essere li alle 8, lei alle 8 meno cinque era sul set. Entrava e salutava tutti :“buon giorno e buon lavoro” poi si sedeva con accanto Ines, la sua assistente; da quel momento in poi non parlava più con nessuno, non per scortesia, mi intenda!, solo per dovizia professionale; si concentrava sul suo copione.
Rachel Welch, con la quale lavorai nel film “Colpo grosso alla napoletana”, film con protagonista maschile Vittorio de Sica, era piccolissima di statura a dispetto di ciò che può sembrare dallo schermo, e aveva timore della folla, così quando facevamo giri di shopping a Roma, per sentirsi più sicura, mi chiedeva di tenerle la mano.
Mi curai di Elizabeth Taylor nel film “Mercoledì delle ceneri”. Mi conferì l’incarico Edith Head, la sua costumista, avevo il ruolo di supervisor. Elizabeth era una creatura meravigliosa, molto particolare, viveva in un mondo tutto suo, estraneo a quello reale. Era come se per lei esistesse nient’altro che il set cinematografico, del resto, cosa vuole, iniziò a lavorare nel cinema che era ancora una bambina.
Fu poi la volta di Sandra Dee, l’ attrice divenuta famosa per il film “Scandalo al sole”. Mi regalò un bellissimo paio di collant, indumento introvabile in Italia a quell’epoca; orgogliosa per la scoperta mi recai in uno storico punto vendita di intimo in Via Condotti; il giorno dopo il proprietario entusiasta della novità ne ordinò dall’America un numero considerevole. Fu così il primo a Roma ad averli.
Lavorai per Bibi (Berit Elizabeth) Andersson sul set di “Storia di una donna”; girammo a Stoccolma, le disegnai ben 40 abiti. Era una ragazza affettuosa e molto modesta. Mi omaggiò di una pecorella di peluche: ho sempre avuto i capelli ricci e diceva che gliela ricordavo.
Non posso poi, tra le mie più care amiche attrici, non menzionare Martine Brochard e la giovanissima Anna Foglietta, con la quale ho avuto il piacere di lavorare proprio ultimamente”.
Vuole ricordare qualche aneddoto?
“In “The House of Cards” avrei dovuto vestire Orson Welles. Gli inviai un telegramma chiedendo di fornirmi le sue misure; rispose che non ce ne era bisogno, avrebbe provveduto lui stesso al suo abito. Nessun problema! Il fatto è che avrei dovuto curarmi anche della sua controfigura. Recapitai un altro telegramma, replicò: “mi vestirò di bianco e di nero e avrò un mantello!” beh, sa cosa feci allora? Realizzai venti, e ribadisco venti, abiti bianchi e neri di differenti fogge, ovviamente con il benestare della produzione!
Il giorno in cui arrivò con su la mise mi sentii immediatamente confortata. Avevo tutto il materiale necessario per lo stuntman. Gli venne presentato lo staff di lavoro, lo attendevamo in piedi uno accanto all’altro; quando giunse di fronte a me disse: “ Nice to meet you”, risposi “Nice to meet you too”; mi fissò e aggiunse “I have lost my cufflinks”, replicai “ No problem”, chiamai il mio assistente che gli porse un vassoi colmo di gemelli, ce ne erano di neri, argento, madreperla. “Witch do you prefer?” chiese, ne indicai un paio, mi guardò e ne prese un paio diverso da quelli che gli avevo raccomandato; mi guardò di nuovo, diede indietro la sua scelta e indossò quelli che avevo suggerito”.
Il suo personale concetto di eleganza?
“Essere adeguati in ogni contesto e passare inosservati; una nota di originalità non guasta. Personalizza”.
Il costume più soddisfacente?
“C’era, in Italia, una cantante che non cantava, fischiava, si chiamava Daisy Lumini, era il 1961, girammo un cortometraggio con lei in piedi sul tetto di un’autovettura. Le realizzai un abito nero, fluttuante, di una stoffa leggerissima, l’abito sembrava volare con lei”.
Il costume che più l’ha preoccupata?
“Un attore che mi ha dato filo da torcere fu Klaus Kinski, padre di Nastassja Kinski. Doveva vestirsi da Pope russo: i pope indossano un copricapo alto e piatto nella parte superiore con velo laterale; la sarta di scena glielo porse, lui lo prese, lo getto in terra e lo calpestò. Poi disse “E’ troppo nuovo!! Deve essere sciupato.” Andò in scena senza; poi se ne rese conto e ci chiese di tenderglielo. Lo fissai dritto negli occhi e gli dissi “Help yuorself ”, mi guardò, lo raccolse e lo indossò”.
Com’ è il suo rapporto con la moda?
“La moda è lo specchio della storia: cambia con i tempi e con le esigenze della gente. In generale, sono molto attenta alla gente che passa perché sono quelli che incontri in strada che ti dicono come vestire qualcuno sul set, e io non manco mai di prendere appunti”.
Progetti, sogni futuri?
“Sono sempre stata una persona defilata, molto riservata. Oggi mi piacerebbe fare ciò che ho fatto con lei: raccontare la mia storia”.