Come una brezza di primavera
Primavera. La stagione che ispira da sempre poeti, narratori e scrittori, ma anche visionari creatori; è lei l’adescatrice di questo amarcord.
Una serie di inattese ed impreviste circostanze mi ha riportato a sfogliare riviste del passato da tempo chiuse in un vecchio baule. Lì dentro, una delle mie pagine preferite ritagliata da una patinata e vintage Vogue. Eccolo, Jardin aux roses uno degli abiti più belli di Gianfranco Ferrè per Dior. Una di quelle creazioni indimenticabili che entrano di diritto negli annali della storia della moda.
Ci sono ricordi che ritornano all’improvviso e che ti rammentano che in realtà non hai mai smesso di ricordare. Era il 1992. Ero intenta a preparare l’esame di Storia della Letteratura Francese Moderna e non mi occupavo ancora di moda.
Non so per quale misterioso accadimento mi imbattei in quella sinfonia primaverile di tessuto fiorito che tanto mi pervase, ma ricordo ancora, che appena visto riecheggiarono nella mia mente quelle rime petrarchesche innamorate “allor fui preso, e non mi spiaque poi …”
Rimanere impassibili di fronte a quell’abito sarebbe per chiunque impresa ardua. Per me fu una vera folgorazione. Erano giorni e giorni che ero immersa nella lettura di Flaubert e della sua Emma Bovary. Inaspettatamente, un abito si era rivelato a me come la trasposizione dei valori sentimentali, drammatici ed intensi suggeriti dal realismo di quel libro.
Tutti i turbamenti, le passioni e le vanterie di quelle pagine sembravano condensate in quell’abito che sprigionava un’emozione ed uno slancio appassionato degno di appartenere ad una donna perfettamente ambigua e perfettamente splendida come M.me Bovary.
Ferrè mi aveva catapultato improvvisamente in quel mondo mondano, frivolo, elegante e per certi versi faceto, intriso di quella vanità femminile danzante fatta di taffettà, satin e crinoline fruscianti.
Emma Bovary. Stupenda e fragile creatura anticonformista, fatua musa di se stessa e fiamma ardente dei salotti aristocratici francesi, si era presa il palcoscenico di quella memorabile sfilata parigina di Christian Dior disegnata da Gianfranco Ferrè nel ’92.
Quando Christy Turlington con un delicato bouquet di rose e ranuncoli fece la sua apparizione sulla passerella indossando Jardin aux roses la materializzazione si era compiuta.
Gianfranco Ferrè con la sua poetica sartoriale era riuscito a riportare in vita quell’eroina decadente, oltraggiosa e ambiziosa, ammaliata dalle frivolezze e dai fasti, e ripudiata dal realismo letterario a favore di un romanticismo in declino.
Si, perché Jardin aux roses è un abito sospeso tra fine ‘800 e modernità. I suoi forti contrasti drappeggiati, mutanti e flessuosi riportano alla memoria quelle sottogonne panneggiate e quelle tournure sull’arrière di fine secolo ma in una vena visionaria contemporanea.
Attraverso un’alchimia di proporzioni perfette, i volumi risultano leggeri, soavi; scivolano con grazia, esprimendo alla lettera l’idea di Ferrè riguardo la costruzione dell’abito, ossia “il massimo della tecnica per muoversi con il massimo della naturalezza”.
Un semplicissimo bustier di organza – che all’epoca non si sarebbe mai imposto se non nei boudoir di gran lusso – adagiato su di un’ampolla di tessuto a corolla, interpreta una femminilità moderna esposta ma non insolente. Una crisalide schiusa pronta a spiegare le proprie ali.
Le linee rinforzate e i volumi vigorosi della gonna si adagiano docili su una spumeggiante balza plissettata dischiusa in uno strascico regale; mentre l’abbondanza più generosa, raccolta posteriormente in un esuberante pouf è davvero degna dei pensieri più arditi dei grandi couturier.
Un abito nostalgico e romantico, sontuoso senza essere superbo che coglie l’intima natura del buon gusto. Leggiadro, fluido, corporeo e corposo. Un idillio sartoriale di vera rarità.
Ferrè era un perfezionista dello stile come Flaubert della scrittura. Mi aveva improvvisamente restituito una Emma Bovary con occhi contemporanei senza giudizio o pregiudizio. Moderna, emancipata, frivola e desiderosa di libertà. Una vera influencer ante-litteram.
Passarono altre 5 primavere prima che Gianfranco Ferrè lasciasse definitivamente Parigi. Tutte straordinarie e indimenticabili. Le ambivalenze e le lusinghe della femminilità vennero sempre sfoggiate in coup de foudre sensibili e meravigliosi.
Dior venne reinterpretato nella sua essenza più ricercata ed esigente attraverso una moda senza tempo, indulgente nel rispetto nostalgico del passato e benevola nell’azzardare spregiudicatamente sul futuro [GF: “La ricetta di stile Dior è riassumibile in quattro parole: lusso e femminilità, rigore e raffinatezza. Con un tocco ineffabile di poesia…”].
Il gusto elegante e garbato di Ferrè ha saputo sempre generare bellezza esaltando il senso armonico delle forme, anche quelle più spigolose. La sua più grande arte la ritroviamo nei dettagli e negli schemi architettonici nascosti da silhouettes vaporose e leggere; deliziosamente maliarde e seduttrici.
Dobbiamo profonda gratitudine a Gianfranco Ferrè. Uno dei pochi che ha portato nella moda passione, sensualità ed emozioni.
E Jardin aux roses ci rimanda allo spirito di quell’inguaribile leggerezza dell’essere femminile che spesso ci possiede e ci pervade come i languori insanabili di Emma Bovary che imperitura ed eterna rimane avvinghiata alle pagine del suo romanzo.
Questo abito è avvincente come la lettura di quell’opera narrativa. A memoria della sua fragile bellezza, ecco cosa ha donato a questa donna e alle donne a venire Gianfranco Ferrè; una sofisticata mondanità da haute couture.