L’importanza di chiamarsi John Malkovich, ovvero l’insostenibile leggerezza del dandy
Per molti, l’icona del dandysmo ai nostri giorni è incarnata dall’attore e regista americano John Malkovich, noto non solo per il modo di pensare raffinatamente eccentrico, ma anche per lo stile mai banale di cui fa sfoggio, ricercato ed elegante, attento a mescolare formale e informale, classico e bizzarro. Lui stesso, del resto, si è spinto a disegnare una linea di abiti maschili ed ora firma i prodotti di una trentina di aziende toscane, commercializzati tramite OpificioJM in una bottega di Prato di circa 600 mq (Piazza S. Marco). L’inaugurazione è prevista il 15 Giugno. In questo spazio, che “naturalmente” non è solo un negozio, ma anche un centro culturale ovvero un luogo d’incontro aperto a tutti, con bar e ristorante, è in vendita il meglio dell’eccellenza artigianale locale, dall’enogastronomia alla ceramica, dal vetro al ferro artistico, dai mobili ai gioielli, oltre agli abiti.
Pronto a sbarcare anche in altre regioni italiane e all’estero, a cominciare da Shangai in Cina, il brand OpificioJM è acquistabile in tutto il mondo tramite uno speciale sito internet (www.opificiojm.it), proponendo un modello distributivo che punta ad accorciare la filiera tramite un contatto diretto con i clienti. Il progetto, realizzato da John Malkovich in collaborazione con 4 imprenditori pratesi per sostenere le piccole imprese valorizzandone le produzioni territoriali, prevede anche l’organizzazione di eventi, tra cui uno spettacolo dello stesso attore in Luglio.
La sua versatilità, del resto, ci è nota dalle memorabili interpretazioni cinematografiche (“Il tè nel deserto”, “Le relazioni pericolose”, “Essere John Malkovich”, ecc.), in cui egli si è rivelato un mago di quella forma di recitazione assolutizzante che gioca fra bene e male, in un gioco continuo di specchi che si riflettono in un unico corpo.
Alla luce di un personaggio “forever cool” come JM, sorge dunque spontanea la domanda: chi è oggi il dandy?
Ci pare di poter rispondere che è l’uomo (e, perché no, la donna) che con coraggiosa tenacia ed apparente levità, diversa dalla superficialità, cerca di difendersi dalla banalizzazione della società di massa, che tende a livellare tutto e tutti ovunque. In altri termini, il dandy è chi si sforza di interpretare l’etica attraverso l’estetica, tenendo fede con coerenza ai suoi valori. Se ne deduce che è una persona dotata di particolare intelligenza e sensibilità e, in quanto tale, spesso vittima di delusione e insoddisfazione nei confronti di un mondo privo di punti di riferimento. Quindi, il dandy è un solitario di genio, piuttosto pessimista, che ama la lentezza, il passato, la distinzione.
Non è né un borghese né un bohémien, ma un sublime cinico che vuole essere se stesso per salvare il mondo (anche se forse lo negherebbe).
Dal punto di vista dell’abbigliamento, tutto ciò si traduce nella scelta di tinte neutre, contrastanti però con gli accenti cromatici chiassosi dei calzini (un mito dandy come Proust sosteneva che nulla è più frivolo della rinuncia consapevole al colore), tagli ricercati, del tutto indipendenti dalla moda, tessuti dall’aria “vissuta”, camicie bianche e gialle senza imbottitura, panciotti a doppio petto, cravatte strette (collezionate in gran copia), apparentemente annodate in fretta, scarpe ben lucidate, sandali fatti a mano, cappello di paglia di Firenze, gemelli vintage, occhiali d’antiquariato. La sua casa è solitamente priva di senso della misura: o troppo piena o troppo vuota. Irresistibilmente stravagante, quindi.
Ammirato e nello stesso tempo temutissimo dai suoi sarti, il dandy è “ben malvestito” (come sentenziava Drieu La Rochelle, che amava mescolare a modo suo gli stili). Va da sé che egli dedichi un tempo infinito all’accostamento di abiti ed accessori, ma detesti filosofare sul proprio comportamento. In fondo, oggi come nell’Ottocento (da Lord Brummel a Oscar Wilde al nostro Gabriele D’Annunzio), cerca solo di “vivere la vita come se fosse un’opera d’arte”. Dissimulando e giocando, con leggerezza.