L’ombra sotto la tela
Conobbi Carla casualmente, al telefono, domandando del fratello. Tino Aroldi, il celebre pittore, non era molto in là con gli anni, ma già non parlava più: il trigemino lo faceva impazzire dal dolore, contraendogli il viso in una smorfia terrificante.
Viveva ritirato in casa con la sorella, entrambi non sposati, in una bella palazzina liberty che, per quanto trascurata, tradiva un passato glorioso. Raro profeta in patria, Tino era molto apprezzato dai concittadini. Le sue quotazioni erano piuttosto alte; il mercato dell’arte fibrillava e lui non vendeva un’opera da molti anni; semmai, ne regalava qualcuna ogni tanto ai pochi amici intimi.
Anch’io naturalmente, incantata dalle sue tele che trasudavano amore gentile e nello stesso tempo passionale per quella terra che era anche la mia e dei miei avi, desideravo avere almeno un suo quadro. Dunque, mi ero decisa a telefonargli per chiedere un appuntamento, con il pretesto (meschino, lo riconosco) di voler solo visitare la sua raccolta di opere. Sapevo che non opponeva rifiuti a richieste di questo genere.
Concordato l’incontro con la sorella, che dall’altro capo dell’apparecchio mi aveva immediatamente colpito per il suo stile forbito d’altri tempi, andai a casa Aroldi un sabato pomeriggio. E fu allora che la conobbi. Ne sarebbe seguita, negli anni, una sincera amicizia, benché io allora avessi solo 25 anni e lei avesse già varcato i 60, e benché la mia foga giovanile mi portasse talvolta a contestarle certe idee o certe scelte. Non avrei mai potuto immaginare, prima di allora, che al mondo esistessero persone come lei. Extra ordinem.
Venne ad aprirmi. Mi apparve, lì per lì, una creatura insignificante: piccola, incredibilmente esile, capelli grigi raccolti in una retina, tailleur ghiaccio intristito dal suo aspetto goffo. E un volto cereo, dai lineamenti regolari ma senza fascino, il cui unico guizzo era dato dai piccoli occhi castani, mobilissimi. Il fratello non c’era. Afflitto dalla solita nevralgia, era già salito in camera, da cui ogni tanto provenivano lunghi lamenti, come ululati, che la sorella si sforzava di giustificare con sicura eloquenza medica (era stata farmacista, in effetti).
Carla in ogni occasione si esprimeva in una lingua che definirei letteraria, frutto di sensibilità e di cultura non comuni. Mi guidò lei nella visita ai quadri del fratello, custoditi nella mansarda-atelier. Mi sentivo profondamente turbata, forse sgomenta, da quella donna e dalla sua casa, che ebbi modo di esplorare in buona parte salendo dal pianterreno al tetto.
Il soggiorno in cui mi aveva ricevuto era una copia perfetta degli anni Trenta, anzi era proprio un ambiente degli anni Trenta, e non sarebbe sfigurato al Vittoriale. Persino l’odore d’antico doveva essere il medesimo. Addirittura la polvere sembrava la stessa, gelosamente custodita. Drappi di tessuti pregiati morbidamente adagiati sui divani, assieme a fasci di fiori appassiti, cristalli e porcellane in calcolato disordine su tavolini di legno nero ed in vetrine austere, sculture bronzee di ispirazione decadente, rabbrividenti nella penombra che le avvolgeva, alle pareti quadri di tanti artisti amici, nessuno di Tino.
Le finestre, protette da pesanti inferriate, sembravano murate e la luce meridiana del mite ottobre ne pareva respinta. Da ogni oggetto emanava nostalgia del passato, che la voce piana, ma cantilenante, di Carla acuiva.
Il secondo piano era nell’oscurità pressoché totale. In mansarda, finalmente, la luce elettrica giunse a rinfrancarmi lo spirito.
“Se esco di qui – pensavo tra me e me – non ci torno nemmeno se me li regalano i quadri”. Ma poi mi facevo coraggio considerando che “si sa come sono fatti gli artisti”, tutti un po’ bizzarri, compresa quella donna che a forza di vivere con un fratello simile si era stranita pure lei, e così via.
Carla mi mostrò su cavalletto alcune opere di Tino che riteneva meglio riuscite. Il Po, i pioppeti, i barcaioli, gli isolotti, i campi di mais, i braccianti al lavoro erano i temi preferiti, espressi con un’eleganza narrativa ed una sensibilità cromatica che mi facevano pensare ad un carattere romantico. Glielo dissi e lei sembrò gradire. Approfittai, quindi, per rivolgerle la fatidica domanda, con la massima disinvoltura che l’emozione mi consentiva: “E’ possibile acquistare quadri del Maestro?”. Rispose subito, con voce ventriloqua, ferma: “La prego di non rivolgermi più questa domanda. Andremo d’accordo”.
E, come se niente fosse, riprese gentilmente a descrivermi altre opere. La sua ombra sulla parete bianca fremeva, percorsa da bagliori metallici. Deglutii e mi misi ad ascoltarla senza fiatare. Così, mi rassegnai ad ammirare i dipinti di Tino Aroldi solo in mostre e gallerie, oltre che a casa sua. Era chiaro, del resto, che non erano i soldi ad interessare a quella coppia fraterna. In quel momento, a sorpresa, arrivò il pittore in persona, trascinandosi faticosamente, con le mani premute su metà del volto dolorante. Sollecita, la sorella gli corse appresso e lui le sussurrò qualcosa a modo suo.
Da che incubo usciva – mi chiedevo – quel vecchio alto, smunto, dagli occhi glauchi allucinati e dalle grandi mani tremanti, che emanavano però un’insolita delicatezza? Sembrò non scorgermi neppure, tutto intento a dialogare con Carla. Lei, allora, lo condusse verso di me e lui, a testa bassa, si limitò a spiegare qualcosa a gesti, che finsi di capire ed approvare. Poi andò a sedersi su una poltroncina in un angolo oscuro e lì rimase quieto per tutto il tempo. Il suo sguardo – lo percepivo – seguiva i gesti di Carla.
Il Maestro – mi era stato riferito – amava la sorella di un sentimento tenerissimo, puro, grato, quasi infantile. Ed anche quello di lei per lui era un affetto assoluto, materno, ma in apparenza più controllato. Fu lei ad interpretare per me l’atteggiamento del fratello, al quale sembrava leggere nel pensiero. Mi disse che lui stesso avrebbe voluto parlarmi dei suoi lavori e raccontarmi come erano nati, ma purtroppo…
Mi interessava, in particolare, la sua tecnica pittorica raffinatissima e al riguardo posi molte domande, alle quali replicò lei, con una precisione ed una competenza che mi lasciarono sbalordita. Le sue parole erano diventate forti, nitide, vibranti. Mi accorsi che si era fatto tardi e dovetti interromperla, scusandomi. Mi salutò con un lieve sorriso, dicendomi che le sembravo una persona sensibile e non le sarebbe dispiaciuto rivedermi. Uscire da casa Aroldi mi recò sollievo e di ciò provai un certo senso di colpa.
Nei giorni successivi parlai della visita con un gallerista, amico comune, e così ebbi conferma di quello che in fondo sospettavo: la vera “mente” delle opere di Tino Aroldi era la sorella. Lei talvolta gli suggeriva persino le pennellate; lei decideva a chi cederle ed a chi no; lei amministrava tutto. Lui, sebbene non fosse un mero esecutore, era comunque diligente e preciso nel seguire i dettami di Carla.
Mi parve sconcertante quella storia, e tuttavia verosimile. Ma subito pensai anche che Carla faceva tutto ciò per amore del fratello, per onorarlo, per proteggerlo dal mondo. Mi assentai da Casalmaggiore per alcuni interminabili mesi, tutta assorbita dal lavoro. Quando tornai, seppi che Tino era morto di ictus cerebrale poche settimane prima. La notizia non era stata diffusa immediatamente. La sepoltura era avvenuta senza funerali alla presenza di pochi amici.
Di Carla, rimasta sola in quella grande dimora ancorata ad un eterno ieri, tutti parlavano come di una donna vanificata dal dolore, scarnificata dalle privazioni che si imponeva, senza più desideri se non quello di dissolversi nell’ombra. Restava per giorni e giorni chiusa in casa e, quando usciva, lo faceva mentre gli altri pranzavano o cenavano. Andava a passeggiare in riva al Po, quel Po che tante volte compariva sulle tele del fratello. Non avevo il coraggio di chiamarla. Temevo che mi respingesse. Finalmente, un giorno le telefonai. Si sfogò lungamente, raccontando in dettaglio come era morto il caro Tino, quanta desolazione fosse piombata sulla sua vita, quanta solitudine, quanta voglia di annullarsi.
Non credeva in Dio, non ci aveva creduto nemmeno da bambina, educata dai genitori a diventare una “libera pensatrice” e spinta, invece, a venerare le Muse, le somme arti: la musica, la pittura, le lettere, la filosofia.
Cominciammo a frequentarci piuttosto regolarmente da allora e fu così che potei inoltrarmi nello straordinario mondo di Carla Aroldi, la donna che ad un occhio superficiale sarebbe apparsa poco più di un ectoplasma, e che a me sembrò, invece, possedere quella tempra umana che solo la dignità più alta può produrre.
Era nata in una famiglia della buona borghesia intellettuale – una rarità nella bassa padana agraria – e fin da piccola aveva maturato una forte predisposizione per i valori della cultura. Si era laureata in farmacia, platonicamente innamorata di un farmacista morto giovane sotto i bombardamenti del ’44. Il suo cuore non avrebbe più battuto così per nessuno. Durante la guerra aveva coraggiosamente aiutato alcuni pittori ebrei in clandestinità, procurando loro viveri, tele, colori e pennelli, oltre al suo conforto morale. Per un po’ aveva lavorato nella farmacia comunale della cittadina, accettando l’incarico a condizione che fosse saltuario. Era fatta così, una creatura spirituale.
Per tanti anni aveva assistito i genitori invalidi a casa, curandoli con pazienza e dedizione infinite. Scomparsi loro, aveva riversato sul timido fratello tutte le sue premure. La dimora di famiglia, in apparenza sconcertante nella sua estraneità al presente, era volutamente rimasta come l’avevano arredata i genitori sessant’anni prima. Perfino i fiori appassiti, le ragnatele e gli strati di polvere erano quelli dell’epoca d’oro, quando tutta la famiglia Aroldi era unita e serena. Togliere solo un granello di quella polvere era per lei un autentico sacrilegio. Più volte dei ladri avevano tentato di penetrare nella bella palazzina. E c’erano pure riusciti: in un caso, la temeraria Carla li aveva colti in flagrante e freddati con parole di sincero perdono come solo lei sapeva pronunciare e quelli, deposta ogni cattiva intenzione, le avevano addirittura chiesto scusa prima di andarsene a mani vuote; in un’altra occasione i ladri erano stati catturati dai Carabinieri, ma lei si era rifiutata di denunciarli.
Mi raccontò, inoltre, di avere scoperto un giorno una banda di ragazzini che compivano azioni vandaliche nel suo giardino: a bastonate stavano decapitando alcune vecchie statue. Allora li aveva ammoniti sui valori della vita, ricordando loro i sacrifici di ogni genitore per crescere rettamente un figlio, e aveva addirittura impartito una lezioni sull’arte della scultura. A qualche ragazzo erano venuti gli occhi lucidi. Era legatissima ai suoi numerosi gatti, che vegliava con trepidazione anche di notte, se malati, e con i quali parlava in modo dolcissimo, per me commovente. Ecco, se volessi immaginare Carla davvero felice, dovrei pensarla insieme ai suoi piccoli felini.
Adesso Carla non c’è più. Forse aveva preparato da tempo la sua partenza, compresa la generosa e saggia destinazione dei quadri di Tino al Museo…
Ma chi avrà cura della vecchia polvere di casa, così preziosa? Ripasserà ancora tra i foschi cristalli, lieve più del nulla, un’ombra di libertà?