Mix di moda
“VESTO COME PENSO”
Quando creatività fa rima con consumo responsabile, la stilista inglese Katharine Hamnet è in prima fila, riconosciuta pioniera della cosiddetta “moda etica” fin dagli anni ’80. Per l’8 Marzo, festa della donna, ha presentato in partnership con Coop, azienda leader della grande distribuzione, la sua nuova collezione primavera/estate battezzata “Vesto come penso”, contrassegnata dallo slogan “Together is possibile” a sottolineare il valore nobile della cooperazione (di cui il 2012 è stato dichiarato l’anno internazionale). L’iniziativa, che si inscrive nel programma “Solidal Coop” con cui il brand italiano già da tempo promuove vari prodotti del commercio equo e solidale, prevede la vendita dei capi firmati dalla Hamnet in 1440 supermercati: si tratta di magliette, camicie, leggins, short, polo, non solo per donna e uomo, ma anche per bambini. Il tutto in cotone bio certificato Fairtrade (prodotto in India), di cui la stilista britannica è paladina, considerandolo uno strumento fondamentale per emancipare dalla povertà milioni di persone, nel pieno rispetto dell’ambiente (il cotone biologico è coltivato senza pesticidi e fertilizzanti chimici). E’ facile prevedere un grande successo per queste creazioni, specialmente per le celebri t-shirt “parlanti”, da sempre capi-cult della Hamnet, che divenne famosa appunto per le magliette di protesta civile (indossate dai Vip in tutto il mondo, da Naomi Campbell al gruppo rock dei Queen), come quella anti-militarista che esibì in occasione di un incontro con Margaret Thatcher nel 1984 (recante la scritta contro i missili nucleari: “58% don’t want Pershing”). Ci è piaciuto che la designer, già impegnata a disegnare per Coop anche la collezione autunno-inverno, abbia voluto dialogare a Bologna, durante la presentazione della nuova linea d’abbigliamento, con 50 studenti del corso di moda della scuola Aldrovandi-Rubbiani. Una donna veramente “impegnata” da tutti i punti di vista!
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NELL’ANIMA DI UN GIOIELLO
Per l’artista fiorentino Iznav Oruam un gioiello non è un mero ornamento, ma rappresenta un concentrato di simboli, ovvero un’espressione dello spirito a cui la nobiltà delle materie preziose ed il talento dell’artigiano orafo donano forma concreta. Firenze rende omaggio alla versatilità di Oruam con una mostra allestita nella Limonaia di Palazzo Medici Riccardi fino al 25 Marzo, dal titolo potente e suggestivo “Per Crucem ad Lucem”. Si tratta di un itinerario concettuale attraverso dieci capolavori in oro, diamanti e pietre preziose, nei quali religione, musica, poesia, cultura dialogano fra loro evocando immagini ultraterrene e dell’inconscio, per condurre tappa dopo tappa (gioiello dopo gioiello) verso una sorta di “Illuminazione”. Solo per citare qualche esempio fra le opere dell’estroso designer, segnaliamo per la loro forza icastica: l’anello “Notte e Giorno” con diamanti bianchi e zaffiri blu, che ruota attorno al proprio asse, rappresentando l’alternanza cosmica di luce e buio; “Culmen Terrae”, una calotta di diamanti capovolta recante una lente d’ingrandimento incassata sopra, visibile solo se ci si pone perpendicolarmente rispetto all’oggetto; “Crucem” in cui una croce in oro rosso, rubini e smalto è collocata su un anello che si apre mostrando la luce di un pavé di diamanti e un rubino (emblema del sangue di Cristo); “Globus”, una sfera che si dischiude trasformandosi in una croce fatta di sei piramidi in cui sono incastonati 240 diamanti. L’esposizione fiorentina, promossa dall’Associazione Culturale Liberarte e patrocinata dalla Provincia, si avvale anche di un raffinato volume e di un originale video a cui ha contribuito Giacomo Artale. Va sottolineato, infine, che “Per Crucem ad Lucem” aderisce al Kimberley Process, un importante accordo internazionale per fissare un sistema di garanzie dell’origine dei diamanti (contro il commercio illegale dei cosiddetti “conflict diamonds”) e al World Diamond Council, organismo che vigila sul business mondiale delle preziose gemme.
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SUPERBE DIOR
C’è tutta la magnificenza del celebre marchio francese nel volume “Dior Joaillerie”, che in 360 pagine racconta la storia dei gioielli della maison fondata da Christian. Pubblicato in italiano da Rizzoli, il libro offre uno spaccato “di lusso” – dalla prima collezione nel 1998 all’ultima nel 2011 – della creatività e della perizia artigianale dei maestri orafi che negli anni hanno alimentato il mito dell’eccellenza della casa parigina d’alta moda. Sfogliando il volume, affascinano in particolare le immagini dei voluminosi e fantasiosi modelli concepiti dalla designer Victoire de Castellane, all’insegna di una poliedricità che ha saputo stravolgere, pur nel solco della tradizione, la gioielleria d’alta gamma dettandole nuovi colori e forme, avvalorando l’impiego anche delle pietre semi-preziose. Aliena al minimalismo,la Castellanein effetti ha reso chic la ridondanza barocca, mescolando armonicamente motivi floreali e pop, in un mix bilanciato di cultura e natura che ha contribuito a “svecchiare” vetusti stilemi.
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“MADRE” DI MODA
Per la prima volta in Italia un museo d’arte spalanca le porte alla moda, esponendo 40 abiti che rileggono gli stilemi della creatività contemporanea incarnati dalle opere presenti nel museo stesso. Si tratta del “Madre” di Napoli, che nelle proprie sale ospita i modelli realizzati dagli allievi dell’Accademia della Moda partenopea allo scopo di intrecciare rapporti insoliti tra due realtà identitarie forti, offrendo soluzioni stilistiche artisticamente significative. Ispirati dal prestigioso sito museale, i ragazzi dell’Accademia sono chiamati a dar prova di originalità nel far dialogare i due mondi, che sono più vicini di quanto si creda, in tacito connubio da sempre. Il clou dell’evento “Tra arte e moda… materia, forma e pigmenti” è il 31 Marzo, quando tra le statue del Museo sfilano 40 modelle in carne ed ossa indossando gli abiti “opere d’arte”. Questa iniziativa vuole sottolineare innanzitutto la scelta dell’Accademia della Moda napoletana di perseguire le strade della sperimentazione come stimolo dell’estro creativo. Ma rappresenta altresì un’opportunità per sensibilizzare il pubblico in generale e il fashion system in particolare verso un’istituzione museale che solo qualche mese fa sembrava a rischio di chiusura.
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IL BEL PARTY CHE FU
Si avverte ovunque un’intensa nostalgia di certe epoche del passato che mai torneranno e che tuttavia si vuol far rivivere in chiave idealizzata. Uno di questi periodi “aurei” coincide senz’altro con il primo ventennio post II Guerra Mondiale, quando si gettarono le fondamenta della moda contemporanea, in un clima pregno di ottimismo, joie de vivre, spensieratezza, balli e party all’insegna del bello ma anche dell’eccentrico. Un meraviglioso excursus nell’alta moda nata allora e assurta a protagonista dei decenni a seguire è quello che propone il Victoria and Albert Museum di Londra con una super-mostra di notevole durata (dal 19 Maggio 2012 al 6 Gennaio 2013), intitolata “Ballgowns: British Glamour Since 1950”. Gli abiti “da ballo” in rassegna attingono agli atelier dei maggiori stilisti, da Alexander McQueen a Norman Hartnell, da Catherine Walker a Zandra Rhodes, da Hussein Chalayan a Erdem. Questa passione per “mitiche” atmosfere lontane, in cui le ore sembravano correre leggere nella piacevolezza di un cocktail infinito in stile “Grande Gatsby”, è la stessa che permea il sontuoso volume fresco di stampa “Bals. Legendary Costume Balls of the Twentieth Century” (Assouline). Mentre lo si sfoglia, scorrono davanti agli occhi in rapida carrellata immagini scintillanti di raffinata mondanità, lusso sofisticato, “follie” di un jet-set di intellettuali, artisti, aristocratici che avevano nel dress code uno dei loro stessi riferimenti esistenziali.